ARTICOLO DI GAETANO RASOLA SETTEMBRE 2009 L'ALTRAPAGINA
L’ultima ombra
Un titolo cinematografico per un’operazione di arte “gestuale”. Marco Baldicchi è un giovane e geniale artista dell’effimero; ha visto delle foto aree del 1944, riprese nella primavera da aerei della Raf, l’aviazione militare inglese; una strisciata da Umbertide a Sansepolcro; ha colto l’ombra della Torre di Berta ancora in piedi; ha avuto l’idea. Riprodurre quell’ombra sul selciato della piazza coinvolgendo nel gesto tutta la città. Costringendo i cittadini a chiedersi cosa fosse. Riaprendo un contesto ormai, apparentemente, superato, dimenticato, perduto alla memoria delle giovani generazioni. E invece alle cinque del mattino di venerdì trentuno luglio duemilanove, ricorrendo i sessantacinque anni dall’evento distruttivo, un consistente gruppo di cittadini si è presentato all’appello. In piazza con Marco, anche Francesco Rosi e Giovanni Cangi, i tecnici amici che hanno preso compasso e righello e hanno tracciato i confini dell’ombra. Avevano portato con loro anche un sacchetto di carbone che, distribuito tra i presenti, ha dato sostanza al progetto. Numerosa e trasversale la partecipazione, tutti con la lingua fuori e il carboncino in mano inginocchiati a colorare. Un gesto collettivo della popolazione della vallata unita nella rievocazione di un atto di guerra che ha deturpato in modo definitivo il profilo della città. Una ferita che finalmente viene risarcita nella memoria di tanti, ha detto qualcuno. Una vecchia fotografia di famiglia ricostruita e reinterpretata, restituita agli affetti. Quella grande striscia nera in piazza ha incuriosito molto, tanti sono venuti per vederla. Punta sullo sponsor, ha ironizzato qualcuno indicando la direzione della freccia verso un’agenzia bancaria. Alle otto l’opera era compiuta. Neri e felici i tanti “pittori”; moltissimi con macchine fotografiche e da ripresa ad immortalare l’operazione. La genialità dell’idea è stata proprio questo coinvolgere tanti e ridare non solo il senso di un ricordo ma il suo valore per la collettività. Anche la titolazione dell’operazione è notevolmente evocativa: L’ultima ombra. Ombra, dal latino umbra e da un più antico indo-iranico ondshra, un sostantivo dai molteplici significati, non indica soltanto l’assenza o la minor presenza di luce ma anche l’apparenza, giù, giù fino al regno dei morti. È un termine che ci richiama una quantità grande di situazioni diverse. Dall’uso che ne fanno i poeti: Oi ombre vane, fuor che nell’aspetto (Dante) agli scrittori come Proust: All’ombra delle fanciulle in fiore, fino all’ombreggiatura dei pittori. Come quella realizzata in piazza da Marco. Le misteriose ombre della sera o l’ombra dei morti nelle antiche concezioni dell’anima o dello spirito dei defunti che finiscono nel regno delle ombre. L’uso che definisce condizioni individuali: restare nell’ombra, mettere in ombra, dare ombra, un’ombra di tristezza o le ombre vane per inseguire l’apparenza di cose senza realtà, senza valore o senza importanza. Ma anche la paura delle ombre e, addirittura, della propria ombra; ridursi un’ombra, per chi, malato, è dimagrito molto o dar corpo alle ombre per chi soffre di qualche disturbo psicologico. Ma anche la gioviale offerta di un’ombra, nel veneto trevigiano – bellunese, per indicare un bicchiere di quel vino bianco squisito che è il Prosecco. Ora prodotto anche in Friuli. L’ombra di un quattrino per le tante vittime della crisi. L’ombra del dubbio che corrode la fiducia verso una persona o verso se stesso, ma anche il riparo: all’ombra di un albero o di una torre o, ancora, della legge quanto mai necessario quando malatempora currunt. Il famosissimo verso: l’ombra di un sogno fuggente, per qualcosa di inafferrabile, di struggente nostalgia. Per finire nella concretezza della politica: governo ombra. E poi il teatro giavanese delle ombre o le famose ombre cinesi quando, con le mani, si disegnano controluce su una parete teste di animali o di oggetti. Dette cinesi perché in quel paese è un gioco millenario con tanto di testi di studio. In ultimo i terribili responsi radiografici, quando indicano ombre inquietanti. Ma il paradosso in piazza di Berta è stata la riproduzione di un ombra solare di uno gnomone che ormai non c’è più. Dall’ombra di una distruzione all’ombra di un’idea. Che fa rivivere una realtà attraverso l’ombra del passato che ritorna..
L’Ultima Ombra
La rievocazione era stata profonda e toccante: il 31 luglio 2009, alle cinque del mattino, una nutrita folla si era riunita in Piazza Torre di Berta, a Sansepolcro, su invito di Marco Baldicchi. Quell’azione, l’artista l’aveva meditata da tempo, e curata in ogni minimo dettaglio.
Aveva fornito a ognuno dei presenti del carbone (c’è ancora chi, a Fontecchio, lo prepara come si faceva una volta). La scelta di questo combustibile fossile non era stata casuale: è materiale che può subire grandi metamorfosi, strumento di antichi e moderni alchimisti.
Tramite l’azione (per favore, non chiamatela performance) di Baldicchi, con il supporto di un drappello di amici e cittadini altotiberini, la valle si è potuta riappropriare della sua storia più autentica.
La sagoma della Torre di Berta era stata tracciata per terra, sulla piazza dov’essa, un tempo, svettava. All’interno del suo perimetro ricostituito, tutti i “carbonari” ne disegnarono l’ombra.
Solo un artista poteva avere la sensibilità di rievocare con tale poetica un monumento che era stato parte integrante della vita di una città e di un’intera vallata. Ma esso non esisteva più dal 31 luglio 1944, data in cui i tedeschi, alle cinque del mattino, lo minarono e lo fecero saltare in aria.
Il tracciato eseguito dall’artista, sulla base di una foto di ricognizione aerea della Royal Air Force, andava tra il limite di base della torre (oggi indicato sulla piazza da segnali in metallo) e l’inizio di Via Matteotti, ovvero nel tratto in cui, il giorno prima di sparire per sempre, la piazza fu attraversata, a mezzogiorno, dall’ombra dell’antica torre.
L’Ultima Ombra, ha definito Baldicchi quest’azione partecipata, collettiva, corale. Man mano che i cittadini coprivano di carbone la sagoma sulla pavimentazione, riscoprendo contestualmente il loro passato, nuova gente affluiva, curiosa, interessata: giovani che si informavano, vecchi che si lasciavano andare ai ricordi, e si commuovevano.
L’inizio dell’azione era stato dettato dal campanaro: i rintocchi segnavano gli anni trascorsi dall’abbattimento della torre, la cui memoria fu trasmessa a Baldicchi dai racconti di Irma Vandi, pittrice e scrittrice biturgense, giovane testimone, in tempo di guerra, delle lacerazioni e delle ferite lasciate sulla pelle e negli animi.
Queste persone, ora, in un pacifico mattino d’estate, rievocavano, con il direttore d’orchestra Baldicchi, un passato che era ancora presente: il nero di Goya, il suo grido contro la guerra, contro tutte le guerre, si levava alto allo spuntar del sole.
“Dov’è molta luce, densa è l’ombra”, scriveva Goethe; e Leonardo, ancor prima: “L'ombra è della natura delle cose universali”.
Baldicchi ha voluto ricreare il mezzogiorno che la Torre non vide mai, quello del 31 luglio 1944, e la sua ombra è stata forte, evocativa più di mille discorsi. E, tra mezzodì e il tocco, un autentico miracolo visivo: l’incontro tra l’ombra della torre sparita e quelle degli altri edifici del “cuore” di Sansepolcro.
E splendida è stata anche la mostra che ne è risultata, svoltasi nel marzo scorso a Palazzo Inghirami a Sansepolcro, in cui erano anche visibili la produzione multimediale (il video, praticamente un cortometraggio, degno di un festival del cinema), quella pittorica (i poetici “Tratti d’ombra” realizzati da Baldicchi nel settembre 2009 sulle pietre di Piazza Torre di Berta, con la tecnica del frottage) e l’installazione con un mucchio di carbone, fotografie e dei resti dell’orologio della Torre che lasciava, letteralmente, senza fiato (memore, per certi versi, di alcuni lavori di Kounellis, uno dei padri dell’Arte Povera). Disponibile è anche il catalogo, opera tra le opere, pubblicato da Petruzzi editore.
Ecco, ho infine compreso il trait d’union che lega le mostre (e le azioni) di Baldicchi, artista mai scontato, che procede “per via di levare” e arriva all’essenza, controcorrente in un mondo che parrebbe votato all’apparenza e all’individualismo (ma non sempre, se qualche direttore d’orchestra raccoglie degli antichi spartiti e lascia sgorgare da essi una musica nuova, corale).
Tutte le azioni (e mostre) di Baldicchi sono, in una parola, commoventi.
Maria Sensi
Cronaca di un’azione
di Francesca Meocci
Io alle mie comodità non ci rinuncio
un’azione di e con Marco Baldicchi/
omaggio a Emilio Villa con dedica a Nuvolo/
Città di Castello_ sotto il ponte del Tevere/
21 maggio 2006_ore 12
L’invito, arrivato nei primi giorni di maggio, chiamava ad assistere a “certa azione” specificando che “non si tratta di una performance nel senso classico che questa parola ha acquisito negli anni passati, preferisco il termine azione per vari motivi”. Il luogo, l’ora e la particolarità dell’invito da parte di Marco Baldicchi, poliedrico artista tifernate che ci ha abituato a eventi notevoli per spessore e originalità, hanno contribuito a creare un evento che non ha deluso le aspettative. Gli amici, gli addetti ai lavori, i curiosi e i passanti che si sono raccolti attorno all’artista, hanno vissuto un momento unico, sospeso nel tempo e nello spazio di un mezzogiorno domenicale, lungo la riva del Tevere, sotto il ponte colpito dal riverbero tremolante della luce sull’acqua, nell’atmosfera ovatta dai filamenti bianchi dei semi di pioppo.
Prima di iniziare, o semplicemente l’azione è già in corso, uno dei fotografi viene trasportato con la canoa alla base del pilastro centrale del ponte. Arriva Nuvolo, cui l’evento è dedicato, e in breve Marco Baldicchi spiega che assisteremo a un omaggio al poeta Emilio Villa, amico fraterno di Giorgio Ascani, in arte Nuvolo. I fotografi scattano. Una figura, una presenza muta e bianca con la valigia in mano, percorre pochi passi lungo la sponda del fiume, poi torna indietro verso il ponte a incontrare Marco Baldicchi, che comincia a scrivere parole in nero sul corpo candido. Sono le parole di Emilio Villa: “Questo è un discorso su qualcosa, naturalmente è anche un discorso su niente, su come niente e qualcosa non sono opposti l’uno all’altro. Ma necessitano l’uno dell’altro per continuare ad esistere”. I fotografi continuano a scattare. Lentamente, la creatura bianca, si avvicina all’acqua, apre la valigia, tira fuori degli scritti e fa scivolare i fogli, dolcemente, nella corrente del fiume. Poi si accosta alla valigia. La voce: “Io alle mie comodità non ci rinuncio”. E si distende, addormentata, per terra. L’azione ha tratto ispirazione dai racconti di vita di Nuvolo. Negli anni duri del secondo dopoguerra Villa e Nuvolo giravano insieme e dormivano dove capitava, anche sotto ponti come questo. Andavano a far visita all’amico Burri e talvolta restavano a dormire nel suo laboratorio, per terra. Marco Baldicchi racconta che Villa aveva sempre una valigia, che conteneva i suoi scritti e spesso diventava il suo cuscino. Diceva: “Io alle mie comodità non ci rinuncio”. I fotografi hanno smesso di scattare.
L’azione unica e irripetibile, durata pochi minuti, sarà prossimamente oggetto di una mostra.
Ogni sorriso
di Maria Sensi
Fino al 29 luglio il Museo Civico di Santa Croce a Umbertide (Perugia) ospita l’esposizione Ogni sorriso di Marco Baldicchi, artista tifernate ben noto ai lettori de l’altrapagina. La mostra (aperta venerdì, sabato e domenica ore 10.30-13.00; 16.00-18.30) rende omaggio alle dodici vittime dell’eccidio nazista del 28 giugno 1944 perpetrato a Penetola di Niccone, a 6 chilometri a nord-ovest di Umbertide, da parte di alcuni soldati tedeschi. I fratellini Antonio, Carlo e Renato Avorio avevano tra gli 8 e i 14 anni; altri erano poco più che adolescenti (Edoardo ed Ezio Forni, 16 e 21 anni; Guido Lucchetti, 18). Tre erano le donne: Milena Ferrini, Erminia Renzini, Eufemia Nencioni. Gli altri uomini erano Canzio Forni, Conforto e Ferruccio Nencioni. Furono massacrati e arsi vivi, senza motivo e senza pietà, da soldati della 305ma divisione della Wehrmacht che, dopo averli straziati, rubarono anche i loro averi, ripartendo dalla loro misera cascina con gli zaini pieni.
La vita di queste persone e delle loro famiglie è raccontata nel bellissimo e straziante libro di Paola Avorio “Tre noci per la memoria” (Petruzzi editore, così come il catalogo della mostra). Erano mezzadri umbertidesi, dignitosi nelle loro esistenze piene di fatica e povertà; Paola Avorio ne ricostruisce i percorsi, anche individuali, in modo da non farli cadere nell’oblio: “non odio chiediamo a chi resta” – scrive – “soltanto memoria”.
Marco Baldicchi – che ha curato la copertina del volume – ha estrapolato, da una foto che mostra le persone scomparse, i dettagli delle loro labbra. Le dodici bocche, isolate, ingrandite e modificate con un intervento manuale, sono elementi di una grandiosa installazione, appositamente progettata, nella navata della ex-chiesa, ora museo, di Santa Croce. L’allestimento è commovente. I dodici stendardi di lino, sorta di sudari in onore delle vittime, si ergono nella mononavata come bandiere bianche, in cui il richiamo flebile alla pace e alla solidarietà si esprime, quasi senza voce, contro la barbarie. La voce, inascoltata, muove dalle labbra dei poveri martiri. Bocche di donne, uomini, adolescenti, bambini, cucite in timidi sorrisi, legate le une alle altre da un muto colloquio. Quanta cura ha posto l’artista nel ridarci l’immagine di quelle esistenze; i visi furono sfigurati, ma i loro dolci sorrisi tornano fino a noi da un passato lontano; ci spronano a riconoscerli e, nello stesso tempo, a ritrovarci gli uni gli altri. A essere uniti, a non dimenticare i nostri fratelli inghiottiti nella lunga notte della guerra e della barbarie; strappati, con inaudita violenza, all’amore dei loro cari, senza un perché.
L’opera – costituita da dodici stendardi sospesi nella navata alla stessa altezza – diviene tassello della memoria collettiva. Il lavoro di Marco Baldicchi assume una dimensione quantomai solenne in questa chiesa di estrema bellezza e sobrietà, al cospetto della Deposizione di Luca Signorelli (artista celebrato quest’anno sia in Umbria che in Toscana), che gli fa da contrappunto nel suo tema dolente. Le parole non servono più, rimangono strozzate in gola, ma il messaggio arriva, forte e chiaro: i suoi connotati sono civili, etici ed estetici. Il massacro non viene dimenticato, le dodici esistenze sono vicine alle nostre: i loro visi sono stati richiamati attraverso lo sguardo dell’arte. Il lavoro di Baldicchi è immune dalla retorica; non si tratta di facile commemorazione, questa azione è stata trasformata in una testimonianza ineludibile per ogni coscienza.
Baldicchi in ogni sua mostra (o azione artistica) lascia un’impronta. Le sue esposizioni (o azioni performative) non sono mai scontate o banali. Tra le più recenti, quella del 2006 “Io alle mie comodità non ci rinuncio!” che evocava una frase pronunciata dal poeta Emilio Villa in una conversazione con l’artista Nuvolo. Un’altra azione di grande sensibilità e bellezza si è tenuta il 31 luglio 2009 a Sansepolcro: nell’azione “L’ultima ombra” l’artista tracciò, insieme ad amici e a tanti biturgensi, sul selciato della piazza principale della città, la sagoma geometrica col carbone riportante la forma dell’ombra proiettata dalla Torre di Berta distrutta dalle truppe naziste 65 anni prima (ne era seguita anche una mostra personale, sempre a Sansepolcro, la cui qualità fu lodata pure dal Quirinale).
L’arte per Baldicchi è un percorso di vita, fuori dai sentieri battuti, lontano dagli espedienti facili.
L’arte per Baldicchi è ricerca e memoria: e ogni volta ci commuove.
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