Io alle mie comodità non ci rinuncio! (2006)

Marco Baldicchi: su Emilio Villa, Nuvolo e i mitici anni ‘50

 

Bruno Corà

 

 

La pista è quella giusta. E’ il sentiero che ha già portato a mete sorprendenti. E Marco Baldicchi l’ha imboccato coraggiosamente, non senza aver compiuto lo strappo linguistico, necessario in questi casi.

L’abbandono dei mezzi tradizionali della pittura per avventurarsi, con i nuovi, verso l’obiettivo di dare forma alle intuizioni dell’immaginario,secondo l’impulso poetico.

Per Baldicchi, in tale percorso, era impossibile non incappare nella ‘montagna’ Emilio Villa, leggendaria vetta tante volte a lui rammemorata dal suo Maestro, Nuvolo, nei frequenti dialoghi di questi ultimi anni, avvenuti nelle lunghe ore di operosa collaborazione trascorse nello studio di Città di Castello.

Così, la fonte mitologica della coreutica azione ideata e compiuta da Baldicchi nel maggio di quest’anno nella sua città sulle rive del Tevere, sotto le arcate del ponte che reca alla via Aretina è dunque quella di Nuvolo, un ‘platone’ attivo dei nostri giorni, sodale di Villa, socratica vox oracolare della poesia del XX secolo. E’ da Nuvolo che Baldicchi trae il titolo della sua azione Io alle mie comodità non ci rinuncio!, espressione pronunciata da Villa in gioventù, allorché il poeta faceva di una valigia il proprio cuscino e dei giornali un giaciglio, dormendo spesso sotto i ponti del Tevere a Roma o sul nudo pavimento degli studi romani degli artisti Nuvolo, Burri, Turcato e altri, attorno a Piazza del Popolo, negli anni Cinquanta.

A partire da quella paradossale e ironica espressione di Villa, tante volte riascoltata nei racconti di Nuvolo, Baldicchi ha costruito un lavoro che segna, a suo modo, un nuovo atto di nascita alla pittura, attraverso un salto linguistico che certamente costituisce uno spartiacque tra l’esercizio finora svolto in essa e ogni sua futura impresa.

Appare evidente, infatti, che la mise en scéne da lui realizzata e a cui, insieme a pochi testimoni, abbiamo assistito quel giorno, sulle sponde erbose del fiume stesso che a Roma diveniva teatro di gesta villiane, lascia da parte una concezione mimetico-rappresentativa per imporre una immagine ‘dal vivo’, la quale presenta, attualizzandola, un’evocazione che coinvolge e rende ognuno partecipe della sua stessa formazione. A riprova dell’istantaneità irripetibile di quell’evento, le immagini fotografiche che si possono oggi osservare e che si continueranno a considerare ‘opera’ a tutti gli effetti, mostrano come questo lavoro di Baldicchi dischiuda alle sue stesse intenzioni pittoriche un varco dalle molteplici possibilità di declinazione.

Io alle mie comodità non ci rinuncio! (2006) si rivela infatti come il lavoro iniziatico in cui la pittura si manifesta su un corpo vivo (la poesia di Villa), attraverso una stesura monocromatica bianca, alter ego idealizzato del poeta da giovane, disponibile a portare su di sé i segni della scrittura poetica.

Nell’azione ideata da Baldicchi, il performer che identifica Villa, giunto dinanzi agli astanti, vicino al pilastro del ponte, recando in mano una valigia - anch’essa, come il suo corpo, interamente dipinta – si dispone alla ‘segnatura’ poetica sul proprio petto. Baldicchi, allora, sulla bianca pagina del torace dipinto e sul volto del coreuta, traccia in un rapido corsivo nero il testo di Villa “Questo è un discorso su qualcosa / ma anche su niente. Perché niente e qualcosa da soli non possono esistere”. [1]

L’enunciato è valido per ogni stagione dell’arte e della poesia, attività tanto più vere quanto più distanti da strumentali funzioni. In quel modo, recando su di sé quella verità, il giovane performer, aperta la valigia vicino al fiume, affida alla corrente, che subito le allontana, alcune pagine degli Appunti di viaggio (2005) pubblicati da Baldicchi con 5 invenzioni serigrafiche di Nuvolo. Successivamente, richiusa la valigia e sistemate a terra alcune pagine di quotidiani a completare le proprie ‘irrinunciabili comodità’, vi si adagia sopra, dando ‘fisicamente’ immagine al sogno di una vita vissuta in nome dell’agone poetico.

Con una pièce tanto intensa per quanto scarna nell’impiego dei segni, Baldicchi fornisce alla mitografia di Villa, e di una generazione di pittori che precede di alcuni lustri la sua, un’immagine epica eppure di intenso lirismo. E non solo: poiché – strano ma vero – da quella ‘azione’ si dischiudono altre risonanze che convocano sulle rive tifernati del Tevere fantasmi appartenenti a clowneries da Parade picassiane, a metafisiche atmosfere, a ‘bagni’ misteriosi e a manichini che Baldicchi ha voluto e saputo ‘dissolvere’ nella concreta vicenda dell’orfico Villa.

Se quello di Baldicchi è un sincero omaggio a una vita spesa in libertà e lusso  anarchico della parola, esso appare formulato con affabulatoria lievità e con l’impegno di corrispondere a quella lezione con l’assunzione di mezzi espressivi ancorché inediti nel suo lessico, sicuramente adeguati alla circostanza e suscettibili oggettivamente di ulteriori interessanti sviluppi. E questi non sono poca cosa se suscitano, come fanno, una stimolante attesa di prossime creazioni.



[1] Il testo integrale di Villa, secondo la citazione compiuta da Aldo Tagliaferri nel suo Il clandestino. Vita e opere di Emilio Villa, Roma 2004, a pagina 114, risulta più esteso: “Questo è un discorso su qualcosa e naturalmente anche un discorso su niente. Su come niente e qualcosa non sono opposti l’uno all’altro, ma necessitano l’uno dell’altro per continuare a esistere”. La rielaborazione del testo di Villa compiuta da Baldicchi, salvaguardando il significato e trascritta sul corpo del performer, si spiega in ragione dell’esiguo spazio disponibile al gesto dell’artista.

 

 

 

Uno spettro s’aggira per il Tevere…

 

Nell’incontro nella biblioteca dell’accademia cominciò da subito a tuonare contro Raffaello che non ebbe rispetto in Vaticano delle pitture di altri grandi e ci esortò ad andare a cercare l’opera di Ciurlionis che nessun professore mai ci avrebbe fatto vedere. L’incontro era stato preceduto da aneddoti, riflessioni e racconti di Nuvolo che trovarono poi felice dispiegamento nella giornata pubblica con gli studenti. Il ricordo di quel giorno del 1983, il cui invito riportava l’immagine di un punto e virgola, si fonde con quello di altri, pochi, incontri successivi…Un poeta, un critico, un intellettuale indubbiamente scomodo.

 

L’artista tifernate Marco Baldicchi realizza l’opera Io alle mie comodità non ci rinuncio come omaggio al poeta Emilio Villa e con dedica all’artista Nuvolo, testimone e tramite in quanto amico di Villa e di Baldicchi.

 

Un personaggio seminudo completamente bianco compie un’azione sulle rive del Tevere: avanza nello spazio con una valigia, diviene luogo della scrittura dell’artista (<questo è un discorso su qualcosa ma anche su niente perché niente e qualcosa da soli non possono esistere>), disperde sull’acqua dei fogli e conclude pronunciando la frase che fornisce il titolo dell’azione ed adagiandosi su dei giornali a terra sotto un ponte, la valigia come cuscino. L’artista legge il testo di Emilio Villa dal quale è tratta la scrittura citata.

 

Baldicchi con questa opera dà ambiziosamente forma ad un progetto artistico, basato su dinamiche di triangolazioni, tramite il quale, pur non avendolo mai conosciuto di persona, vuole porsi in diretto rapporto con Villa. La rivisitazione della grande figura poetica (con la presenza tutelare dell’artista Nuvolo) viene attuata in modi non letterari ma propri della tradizione visiva.

L’operazione culturale è complessa e si struttura, attraverso un’apparenza semplificata, in modo inusuale e indubbiamente interessante. L’artista utilizza alcuni codici convenzionali: la convocazione di pochi testimoni, l’accentuata indifferenza formale, l’uso del corpo e della scrittura ‘rivisitata’, l’introduzione di pochi ma significativi elementi retorici e non ultimo l’aspetto espressivo e affettivo e attraverso questi fornisce all’osservatore un’immediata e facile visione dell’evento. L’opera si mostra, in un anacronistico ‘deplacement’ spazio-temporale, come una teatralizzazione di un evento passato. Questo la fa apparire devozionale, sperimentale in senso tardomodernista, velata di naiveté, distanziata da formalismi e pratiche oramai accademici e finalizzata all’aumento del livello di riconoscimento mitico di un soggetto, già a priori ritenuto degno di ciò. La natura del prescelto dall’omaggio, che non consente certo facili semplificazioni, stimola la successiva riflessione sul lavoro, che si rivela quale messa in scena critica ricca di complessità e disilluso gioco culturale pronto a ribaltare ogni situazione affermativa. Lo dimostra la scelta e la rilettura della frase di Villa scritta sul foglio/corpo dell’attore.

 

È caratteristica della cultura occidentale, e dell’arte italiana in particolare, l’individuazione di modelli del tempo precedente da cui prendere le mosse nel presente per nuove articolazioni critiche. Un osservatore, posto all’interno di sistemi di riferimento tradizionali, trova infatti nella nuova opera la stabilità e la tranquillità proprie del passato mentre la rottura e la discontinuità porterebbero a crisi e destabilizzazione. L’omaggio ad una personalità del passato ha spesso come riflesso una immediata giustificazione dell’agire dell’artista: la grandezza riconosciuta e ritenuta degna di appartenere alla memoria collettiva è evidenziata dall’atto del singolo, che per riflesso è quindi encomiabile.

Il caso dell’azione di Baldicchi si rivela ben più complesso in quanto agisce su di un passato recente non ancora normalizzato e consolidato quale riferimento storico-critico e sul quale è ancora all’inizio sia l’elaborazione ricostruttiva che la necessaria revisione decostruttiva. L’opera di Villa possiede caratteristiche, proprie dell’avanguardia, di rottura e destabilizzazione rispetto al proprio presente e al proprio immediato precedente ed anche posta come riferimento nell’azione artistica di Baldicchi non acquista alcun elemento che la possa rendere assimilabile ad un passato tranquillizzante e positivo in senso tradizionale.

L’opera di oggi attua una salvaguardia del passato e, sebbene non lo storicizzi tout court non essendole propri gli strumenti specifici, lo fa assumendolo quale elemento segnico testuale sul quale attuare l’azione di critica artistica. Il poeta Emilio Villa, e parallelamente anche Nuvolo, divengono soggetti di un’attenzione particolare che li vorrebbe sottrarre tanto ad un possibile oblio massmediatico, quanto alla loro trasformazione in oggetto-merce o ad una decostruzione post-modernista. L’azione artistica diviene consapevole assunzione di una radice culturale e, al tempo stesso, del rischio di proporsi in nuove strutture forse più convenzionali (per linguaggio), più elitarie (per contesto) e sostanzialmente estranee (per tempi e tensioni culturali) rispetto al modello individuato.

 

Baldicchi conosce bene Villa e sa che deve necessariamente fare i conti con elementi non eludibili dati dalla natura del poeta e ponendolo all’interno del proprio lavoro, è conscio dell’impossibilità di una linearità culturale genealogica o di suggestioni idealistiche e nel contempo dell’inanità di tale agire: ma non può fare altro per la sua stessa natura artistica e poiché si è dato, con la scelta dell’omaggio, l’onere di colui che deve indicare. È costretto quindi a muoversi in una visione priva di riferimenti a linee di sviluppo storicistico, retorico o altro, tenendo presenti tempi, aspetti di casualità, elementi narrativi o politici indubbiamente condizionanti. Baldicchi non sembra investire l’opera di significanti linguistici e significati, non solo segnici, dovuti ad una discendenza più che ad un’affiliazione o a una possibile empatia (nell’omaggio) e ad un’appartenenza intellettuale; l’azione effettuata è strutturata con proprietà e dispositivi visivi tradizionali e non, che possono divenire necessariamente lontani, se non antitetici, anche da quelli propri dei modelli assunti.

 

Baldicchi adotta l’azione differita tramite la ripetizione di un evento che giunge a lui attraverso la memoria mediatrice di Nuvolo ponendo in nuova relazione critica ciò che è avvenuto nel passato con ciò che avviene oggi (e che immediatamente è già passato in quanto azione effimera).

 

L’azione Io alle mie comodità non ci rinuncio realizzata sulle rive del Tevere è la rievocazione di qualcosa già avvenuto: evento generico della vita di Villa già all’epoca reiterato forzatamente nel tempo (a + a + a + a…) e che attraverso la memoria (nei racconti di Villa e di Nuvolo) viene assunto come unicum esemplare (evento A). Ora l’artista, attraverso l’azione (evento B), riproduce qualcosa (evento A) di già ripetuto; questa pratica, attuata dalle avanguardie in maniera parzialmente inconscia e nella contemporaneità in modalità decisamente più articolate e coscienti, permette all’evento A, posto nel passato, di essere riproposto nel proprio futuro, tramite l’evento B. Questo procedimento logico tende a favorire l’attitudine di omaggio al modello prescelto e ad estrapolare alcuni aspetti dall’evento presente per porli a favore dell’evento passato (il modello), come riconoscimenti di ordine simbolico e così via. L’artista, pur sempre ammaliato dal concetto di originalità, si erge anche a primo privilegiato agente (o perlomeno all’interno di un’elite ristretta) capace di riconoscere ciò che lo ha preceduto e conseguentemente potergli rendere omaggio; nel contempo svolge azione di rimedio rispetto alla colpevolezza dell’oblio della cultura dei più e assolve ad una mancanza grazie al riconoscimento che l’evento A ottiene ora attraverso la qualità (anche se riflessiva) dell’evento presente.

L’evento A, seppur frutto di una reiterazione, appartiene oggi a un luogo della memoria: di qui l’importanza della presenza di un testimone d’eccezione come Nuvolo. Il ritorno di a, memorabile e sostanziale in A, è affidato al suo futuro, ovvero all’evento B, che in questo assume su di sé caratteristiche, inverse a quelle del modello narrato, di unicum (per pochi testimoni che ne possono perpetuare memoria) e di exemplum. In un doppio gioco di rimandi Baldicchi aumenta questo aspetto con la ripetizione postuma dell’evento B che si attua nella sua riproduzione tecnica: foto, proiezioni video, accessibilità su siti internet, divengono elementi, non più l’opera, riutilizzabili in momenti seguenti e pur snaturandosi e diventando altro il tutto diventa più fruibile e storicizzabile in un tempo successivo e in uno stato meno effimero. La lettura critica mediata dal mezzo diviene costruzione residuale di una memoria e di una deriva dell’aura anche, e soprattutto, in quanto si assumono nuove realtà oggettuali, con valore di opera-merce, che sia l’evento A che quello B non posseggono in origine e che potranno acquisire solo con valore retroattivo e di garanzia riflessiva.

 

In epoca di dilagante revisionismo storico-artistico e a volte di impropri travasi disciplinari, l’opera Io alle mie comodità non ci rinuncio di Marco Baldicchi pone nuove questioni di rilettura critica e sulle modalità del fare. Costringendo l’osservatore a superare la visione più immediata e a riflettere su ciò che appare come schermo di un altro possibile, sulla sub-reale lettura critica degli assunti propri del modello dato come riferimento. L’azione inverte il processo e non lo ricolloca in un’improponibile formalizzazione estetico-visiva tradizionale e tranquillizzante; ne accentua invece gli elementi di eversione culturale, anticonvenzionalità, eticità, ed anche la componente eretica, propri della grande figura poetica di Emilio Villa.

 

Aldo Iori

tra il baltico e il mediterraneo nel mezzo del duemilasei

 video a questo indirizzo:

http://www.casttv.com/video/93k23c1/khenzo-omaggio-a-nuvolo-video

http://www.youtube.com/watch?v=wiIMc873zho

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